16 dicembre 1984: un piccolo frammento di storia
Me la ricordo come se fosse oggi, quella lontana mattina del 16 dicembre 1984. Una fredda e umida domenica ormai invernale, con il cielo che lasciava trapelare appena la luce del Sole in un mare di nuvole.
Il Natale, ormai imminente, accendeva la fantasia e le emozioni di quel bambino di 12 anni che ero, che già pregustava le imminenti vacanze, da trascorre con i suoi familiari, in compagnia della sua passione più grande, quella per le stelle. Da diversi anni avevo scoperto la bellezza e l’incanto del firmamento, la magia di quel tappeto di stelle che come per incanto, al calar del Sole, si accendevano, sparpagliandosi nel velluto nero della notte.
A fatica avevo tentato di saperne di più, approfittando dei racconti di mio padre, che rievocava le sue notti giovanili popolate dai nomi tradizionali di alcune stelle come Antares, le “Gallinelle” e il “tre di Bastoni” e sfogliando un libro bellissimo, “La Conquista del Cielo“, che mi era finito tra le mani, scritto in un linguaggio che ero appena in grado di capire pienamente. L’autore era il grande Guido Ruggieri, raffinato osservatore di Marte: incredibilmente, molti anni dopo, avrei vinto un premio a lui intitolato.
Nell’autunno del 1984, i miei genitori mi avevano regalato un abbonamento al “Corso di Astronomia” che l’editore Fabbri aveva giusto presentato e che raccoglieva i contributi dei grandi astronomi italiani di allora, tra cui Margherita Hack. Un anno prima, il regalo era stato un altro: un piccolo telescopio rifrattore da 60 mm, che mi aveva svelato meraviglie inenarrabili, come gli incantati paesaggi lunari, le stelle doppie colorate, la magia dell’anello di Saturno, la diafana luce della Grande Nebulosa di Orione. Quante notti trascorse con l’occhio incollato all’oculare dello strumento, saltellando di stella in stella, pian piano decifrando la trama delle costellazioni nel loro lento srotolarsi stagionale.
Un bel giorno, all’indirizzo di quell’abbonamento, arrivò una lettera, diretta proprio a me. All’interno vi era un solo foglio, con un breve scritto. Un’importante azienda milanese mi invitava alla presentazione, quel 16 dicembre a Roma, di un nuovo telescopio che la Vixen, celebre ed apprezzato produttore giapponese di pregiati strumenti, aveva da poco introdotto sul mercato.
Ecco, qualora avesse avuto ancora qualche dubbio, quel bambino ora sapeva bene cosa desiderare sotto l’albero di Natale, ancor prima di vederlo. Chiese ai suoi genitori se potevano portarlo a quell’incontro, che a lui pareva si sarebbe svolto all’altro capo del mondo. Non ricordo di aver fatti “capricci”, non serviva: i miei sapevano che il cielo era ormai per me una cosa seria, non un fuoco di paglia.
Vi era però un problema non da poco. Proprio quel 16 dicembre si sarebbero tenute, presso la Scuola Media Gizzi che frequentavo a Ceccano, le elezioni dei rappresentati dei genitori e a mio padre era stato chiesto di presenziare il seggio, come presidente. Ricordo così bene quando mio padre me lo disse, gelando le mie emozioni. Ma subito dopo egli ne parlò con la Preside dell’Istituto, la professoressa Roberta Tiberia Bilancini, che – mi disse poi mio padre – comprese immediatamente il motivo per cui egli doveva declinare l’impegno. Mia madre era a sua volta d’accordo, dunque sarei andato a quella presentazione con mio padre!
Vi lascio immaginare con quanta trepidazione e insopportabile lentezza vedevo consumarsi i giorni, in vista di quel “viaggio”. Come altro chiamarlo, effettivamente? Avrei raggiunto Roma in treno, il che mi sembrava come andare chissà dove, all’avventura. Là saremmo andati all’indirizzo convenuto, dove nella mia fantasia mi aspettava il telescopio più bello del mondo. Lo avremmo potuto ammirare, certo, poi chissà se sarei riuscito a convincere i miei genitori a portarcelo dietro.
Una volta a Termini, cerchiamo il bus per recarci a destinazione: il 3 e il 4 raggiungevano la zona, ai Parioli. In un tempo che mi parve un secolo, arriviamo alla fermata finale, in Via Bertoloni e da lì proseguiamo a piedi. Sembrava fatta, ormai, ma quel giorno scoprii che a Roma esistono, nei numeri civici, le lettere: 1/a, 1/b, 1/c e oltre. Una iattura, per la mia impazienza. Ecco, alla fine, il civico citato nella lettera. Suoniamo, entriamo nel cancello condominiale e al primo piano accediamo all’interno giusto, il numero 2.
Non dimenticherò mai quel momento: telescopi da sogno, come mai ne avevo visti (nel 1984, vivendo in paese, a stento si poteva immaginare uno strumento astronomico, figuriamoci di quel livello), meravigliose fotografie del cielo e dépliant che già solo a sfogliarli ti facevano fluttuare nello spazio.
Ricordo in particolare due strumenti meravigliosi: il Celestron C8 da 200mm di apertura, elegantissimo nel suo colore nero, su montatura equatoriale a forcella (dettagli questi che imparai chiamare per nome grazie a quegli opuscoli), dotato di ruota dentata Byers e uno stupendo riflettore newtoniano della Vixen da 150mm, su montatura equatoriale alla tedesca Super Polaris equipaggiata con, udite udite, il primo computer di puntamento automatico mai realizzato nella storia: il leggendario Skysensor. Ecco, era quello lo strumento che veniva presentato quella domenica. E io lo vedevo, finalmente: ero nel paese dei balocchi.
Vi erano anche altre persone, tutt’intorno a quel gioiello. Iniziammo ad ascoltare la presentazione che ne faceva il nostro ospite, che oggi ho il piacere di considerare mio carissimo amico (ciao, Enrico!). Egli ci svelò quell’oggetto alieno, ovviamente parlandoci di quel piccolo computer che era in grado di puntare qualsiasi corpo celeste, a patto di conoscerne il nome o le coordinate.
A mo’ di esempio, il presentatore prese lo Skysensor, digitò il numero di una stella della costellazione del Triangolo presente nella sua memoria, come si sarebbe fatto sotto il cielo per puntarla, schiacciò un ultimo pulsante e noi tutti trattenemmo il fiato. Magia: si sentì un leggero ronzio, sovrastato da un sobrio beep-beep, e il telescopio iniziò a muoversi da solo, grazie ai suoi motori passo-passo. Tutti guardavamo con gli occhi spalancati e increduli quella meraviglia, non serviva essere bambini per gongolare: il telescopio si dirigeva là dove sapeva trovarsi quella stella, arrestandosi quando l’aveva puntata.
Solo allora riprese il sommesso vociare dei presenti, cui quasi non badavo più. Per me, ora, esisteva solo quel gioiello. Ricordo che venne presentato anche il C8 di cui dicevo, ma quel telescopio Vixen mi aveva portato troppo lontano per tornare con i piedi per Terra.
Arrivò il momento di dover andare via, non prima di aver fatto incetta di dépliant di ogni tipo, in primis il catalogo Vixen che, ricordo, aveva una bellissima copertina rossa e all’interno presentava tutti gli strumenti della casa giapponese, inclusa l’ultima serie con Skysensor. Spero sempre di ritrovarne una copia, quello che avevo l’ho smarrito.
Con mio padre raggiungemmo in bus la stazione Termini e prendemmo il treno che ci riportava casa. Trascorremmo l’ora e mezza del viaggio a parlare e rievocare quel che avevamo visto quel giorno (parlavo quasi sempre io, povero papà). Sono certo che mio padre aveva già capito cosa sarebbe accaduto nelle ore successive e di cui, dopotutto, mia madre e lui erano comunque stati complici.
Nei giorni seguenti, infatti, i miei genitori acconsentirono affinché diventassi il bambino più felice del mondo: mi regalarono quel telescopio, un serio impegno anche economico, ma che intimamente mi trasferì una grande fiducia: era davvero una concessione gigantesca ad un bambino che iniziava a mettere a fuoco il suo avvenire da astrofisico.
Infinite volte, da allora, mi sono commosso nel ripensare a quella domenica. Sono passati ben più di trent’anni e la mia amata mamma da qualche mese non c’è più, lei che mi ha sempre sorretto e sostenuto, con mio padre, nel viaggio che ebbe in quel 16 dicembre, remoto eppure nitidissimo nella memoria, la sua irreversibile ed energica catapulta.
Qualche giorno dopo saremmo tornati, io e mio padre, nella Capitale, nello stesso luogo, a ordinare quel bellissimo riflettore da 150mm, il Vixen Super Polaris R-150S, al quale debbo molto di ciò che ho fatto, astronomicamente parlando, nella mia vita.
Ci sono ritornato, davanti a quel civico di Via Bertoloni, a Roma, tre o quattro volte in tutto. L’ultima, con mio padre, una decina di giorni fa. Lui l’ha riconosciuto subito quel cancello, anche se non lo vedeva da allora. Segno che quel giorno era rimasto impresso anche in lui. Ci siamo guardati, senza dir nulla, in quel momento il pensiero è andato a lei, a mia madre, che a suo modo c’era, ora come allora.
Non ho mai scritto di questi ricordi, stavolta mi è venuto spontaneo, oggi che, 16 dicembre 2016, sono trascorsi 32 anni esatti da quel giorno.
Dopo tutto, è stato quel telescopio, di eccellente fattura, a svelare il mio destino di astrofisico. Qualche anno dopo lo avrei attrezzato per la fotografia astronomica a lunga posa, dotandolo poi di una camera CCD, con cui il 31 dicembre 1996 avrei fatto la mia prima importante scoperta scientifica. Lo strumento, skysensor compreso, funziona ancora. Conto di rimontarlo quanto prima, magari per un’osservazione astronomica celebrativa.
Ne è passato di tempo da allora, da quel 16 dicembre 1984! Da dieci anni, poi, il Virtual Telescope è diventato una incredibile realtà, ma le radici affondano saldamente là, in quei fatti, in quelle memorie, in quel sostegno familiare.
L’avventura continua più che mai, ora che il Virtual Telescope è un progetto di eccezionale considerazione e prestigio internazionali, sempre pronto a svelare nuove frontiere di questa grande avventura che è la condivisione della conoscenza.
Grazie per aver letto fin qui.
Gianluca Masi
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